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Il 24 aprile 2013: il punto di non ritorno per l’industria della moda

Il 24 aprile 2013: il punto di non ritorno per l’industria della moda

Per molti questa data è anonima, infatti il terribile evento di cui sto per raccontarvi è stato sottorappresentato nei media occidentali e per tante persone è ancora sconosciuto, nonostante siano passati 10 anni da quando è accaduto.

Alle 8.57 del 24 aprile 2013 capimmo che si può morire di moda, quando nel giro di qualche secondo crollò il Rana Plaza che si trovava a Savar, nella periferia di Dhaka in Bangladesh. Era un edificio di otto piani all’interno del quale si trovavano cinque fabbriche tessili fornitrici di tanti brand occidentali di fast fashion come Prada, Versace, Primark, Walmart, passando per Zara, H&M, C&A, Gap, Benetton, Mango, Auchan.

Furono uccisi 1.138 lavoratori -l’80% dei quali erano donne- e ci furono 2.600 feriti e invalidi a vita. Questo è lo spaventoso bilancio del più grande disastro
causato dall’industria della moda.

La storia di questo edificio è molto particolare: il Rana Plaza prendeva il nome dal suo proprietario, Sohel Rana, proveniente dalla giovane guardia del partito Awami League, che è alla guida del Paese dal 2009. Il palazzo era stato costruito nel 2006 e progettato per ospitare uffici; nonostante ciò tra una banca, negozi e abitazioni, alla fine vi si insedieranno ai piani superiori diverse fabbriche di abbigliamento, in cui arrivano ad accumularsi fino a più di 5.000 lavoratori.

I servizi di sicurezza della prefettura si sono subito preoccupati della solidità di questo edificio, i cui ultimi quattro piani sono stati costruiti senza permesso, grazie a vari agganci politici. Quando le vibrazioni delle macchine tessili iniziano a crepare i muri i negozi e la banca si spostarono in altri edifici. Rimasero
solo le fabbriche tessili e la struttura smise di essere sottoposta ai controlli periodici.

Questa catastrofe non arrivò in modo inaspettato: negli anni precedenti diversi erano stati gli incidenti nella stessa zona del Bangladesh, dove ancora oggi si concentra un gran numero di fabbriche di abbigliamento. Nello stesso Rana Plaza, il giorno prima della tragedia, alcuni operai avevano notato delle crepe strutturali, ma furono costrette a tornare al lavoro per paura di perdere il posto.

L’industria della moda è basata sullo sfruttamento, sulla paura, sulla mancanza di diritti e di tutele e questa catastrofe lo ha reso evidente. Quale fu la risposta da parte dei colpevoli? Quale fu la risposta da parte degli assassini?

I marchi occidentali che si rifornivano presso quelle fabbriche tardarono ad assumersi la responsabilità di un sistema di produzione che costringeva le persone a lavorare in quelle condizioni. Giornalisti e persone del luogo scavarono a mano sotto le macerie per trovare le etichette e i fogli con gli ordini che chiamavano in causa nel disastro i brand occidentali  per poter accusarli con il fine, più che per far risarcire i danni, di cercare di cambiare rotta e modificare l’industria della moda, rendendola più sostenibile sia a livello etico che a livello ambientale.

Purtroppo la risposta all’accaduto da parte dell’industria della moda  si è tradotta solo nella formazione di accordi allo scopo di investire in misure di sicurezza esclusivamente in Bangladesh, tra cui: Accord on fire and building safety in Bangladesh (stipulato dalle imprese europee) e Alliance for Bangladesh Worker Safety (stipulato dalle imprese del Nord America).

Questi accordi presentano però molte mancanze: sono infatti relativi soltanto al Bangladesh, mentre le stesse criticità si rilevano anche in altri Paesi in via di sviluppo, sfruttati allo stesso modo dai Paesi occidentali per la loro manodopera a basso costo.

In questi dieci anni, la sicurezza nelle fabbriche tessili del Bangladesh è migliorata poco e solo parzialmente e le condizioni di lavoro sono infatti ancora critiche: i salari sono estremamente bassi e gli orari di lavoro disumani. Questo accade semplicemente perché non sono cambiate le dinamiche economiche della filiera tessile.

La prima causa della tragedia del Rana Plaza va ricercata nella spinta occidentale a ridurre costantemente i costi e i tempi di produzione, il che si traduce in una forte pressione sugli operai e in condizioni di lavoro non adeguatamente tutelate. In Bangladesh, la paga mensile minima di un operaio tessile è di soli 8.000 taka, ovvero 68 euro; questa cifra è assolutamente insufficiente per garantire il sostentamento dei lavoratori e delle loro famiglie, soprattutto in questo momento in cui il Paese registra una forte crescita dell’inflazione.

Inoltre spesso gli operai vengono maltrattati e costretti a turni di lavoro estenuanti, le molestie verso le lavoratrici sono frequenti e la mancanza di
contratti regolari compromette i diritti dei lavoratori come è stato denunciato da Human Rights Watch.

 

E’ evidente che il sistema moda debba cambiare radicalmente modello. L’avvento della fast fashion ha amplificato i problemi: i fornitori, dall’Asia all’Europa orientale, vengono schiacciati da richieste di una produzione sempre più veloce e a costi sempre inferiori e gli effetti negativi e disastrosi di queste richieste ricadono esclusivamente sui lavoratori e sull’ambiente.

Per esempio, l’Etiopia è recentemente diventata un’altra meta ambita dai marchi di abbigliamento in cerca di costi di produzione sempre più bassi: lì la paga mensile minima per un operaio tessile è di soli 24 euro, a fronte di un salario di sussistenza stimato a 100 euro. La corsa al ribasso delle multinazionali è un problema che interessa l’organizzazione economica globale e che ci deve preoccupare molto.

 

Cosa possiamo fare noi? Dobbiamo porci domande e comprendere che acquistare un indumento corrisponde a una grande responsabilità e per questo va fatto solo quando c’è davvero la necessità. Il lavoro che c’è dietro i nostri vestiti non può e non deve essere invisibile: se non sappiamo chi sono e in quali condizioni si trovano le persone che fabbricano i nostri vestiti, è facile far finta che milioni di persone stanno soffrendo e persino morendo.

Se possibile dobbiamo acquistare capi provenienti da una filiera sostenibile o, se no, acquistare capi vintage o second hand. Nell’attesa che vengano
implementate misure per regolamentare e trasformare l’industria della fast fashion, noi consumatori possiamo attuare un grande cambiamento acquistando in modo consapevole, responsabile e sostenibile.

Gaia Sironi

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