La bellezza è negli occhi di chi contempla

Economy of Francesco: “un’economia di cura”

Economy of Francesco: “un’economia di cura”

Dopo l’articolo di Massimiliano Mariani sull’intervento del Papa all’evento internazionale di Economy of Francesco ad Assisi, provo a intervenire anch’io per raccontare delle “belle notizie” dalla mia esperienza diretta di partecipante all’evento e al processo di EoF.
Sono andato infatti all’evento internazionale 2022 di Economy of Francesco, ad Assisi, insieme ad altri mille giovani da tutto il mondo.
Economy of Francesco, per capirci, è il processo attivato su iniziativa di Papa Francesco nel 2019, attraverso una “chiamata” ai giovani economisti, imprenditori e “attori del cambiamento” di tutto il mondo, per incontrarsi, confrontarsi, e gettare le basi di una nuova economia: un’ “economia che cura”, ispirata a Francesco d’Assisi, al posto di un’ “economia che uccide”, perché sottomessa al paradigma tecnocratico e al profitto individuale, come Francesco dice fin dall’inizio del suo pontificato.

Dopo 3 anni dalla chiamata del Papa, e tanta strada percorsa, anche con difficoltà e a intermittenza, complice lo stravolgimento avvenuto per la pandemia, quali belle notizie ci arrivano dal cammino di Eof?
A mio modo di vedere sono soprattutto due: le persone, e le idee.

LE PERSONE
Ma grazie a Dio voi ci siete: non solo ci sarete domani, ci siete oggi; voi non siete soltanto il “non ancora”, siete anche il “già”, siete il presente.” (dal discorso di papa Francesco a Economy of Francesco, 24 settembre 2022)
È vero quello che ci ha detto il Papa. Già il fatto stesso di essere lì, finalmente in mille giovani da tutto il mondo (i limiti della pandemia non hanno ancora permesso di recuperare il numero di iscritti originario.. in più ci si è tristemente messo il governo italiano, negando il visto ai partecipanti di una serie di paesi, soprattutto africani, ritenuti “a rischio di non rimpatrio”), è il segno che questa economia che uccide non è l’unica realtà. Non è vero che “there is no alternative”, e le alternative sono già realtà, ancorché minoritarie, in tanti luoghi del pianeta.

Ho incontrato ad Assisi, nelle riunioni del mio villaggio Finance and Humanity e nei tavoli di discussione libera aperti ogni giorno sulle tematiche più svariate, giovani economiste ed economisti, ragazze impegnate in politica, imprenditori e attivisti africani, sudamericani e asiatici, che sono portavoci di cambiamenti in atto nelle comunità locali, di imprese benefit e sostenibili nate un po’ ovunque, rappresentanti di un’elevata consapevolezza dei problemi e di una notevolissima competenza pratica.

Entle, che organizza le donne in Botswana per renderle autonome finanziariamente; Cristina, che sogna un partito ecologico della giustizia sociale e intanto si impegna per rinnovare i verdi italiani dal suo seggio consigliare in Veneto; Henry, che ha fondato un’impresa di comunità sostenibile in Benin; Vitor Hugo, che diffonde nei movimenti popolari in Brasile l’idea dell’ “Economia di Francesco e Chiara”; Ching Wei, che lavora dentro al ministero
dell’Economia di Taiwan e Claudio che lavora alla BCE. Se è vero che la strada è lunga, sono lunghe anche le gambe per percorrerla.

LE IDEE
È proprio vero, come spesso accade di sentire quando si parla dei problemi più gravi e complessi che attanagliano il mondo, che alla fine alcune soluzioni ci sarebbero già. Anche in questo caso non si tratta, ovviamente, di oscure ricette miracolose che da sole sarebbero in grado di raddrizzare le storture di una realtà assai complessa per essere ridotta a qualcosa di “risolvibile” in poche mosse, ma di punti di riferimento operativi concreti su cui basare la speranza di un lavoro di cambiamento, un cambiamento che sicuramente è credibile solo se agito contemporaneamente dall’alto, attraverso la politica, e dal basso, nella cultura pratica di tutti i popoli. Ne cito quattro:

o L’ECONOMIA DELLA CIAMBELLA: dell’inadeguatezza del PIL per misurare il benessere si discute almeno dagli anni ’60, ma sta di fatto che ancora su quell’indicatore di basa il “rating” di un Paese e quindi la sua credibilità e possibilità di accedere alle risorse globali.
Kate Raworth, una delle economiste Ambassador di EoF, ha elaborato da anni un modello alternativo (non è l’unico) particolarmente efficace: l’Economia della Ciambella, che è in grado di misurare quantitativamente attraverso una serie di indicatori dove si colloca un Paese in una classifica che non è più lineare (influenzata esclusivamente dal progresso umano) ma circolare (combinato con il rispetto dell’equilibrio ecologico/ambientale). Nessun paese al
mondo riesce al momento a stare dentro ai limiti della “ciambella”, e cioè a garantire un livello di benessere minimo ai suoi abitanti senza danneggiare il clima e l’ambiente naturale in nessuna delle sue componenti, stando cioè in equilibrio, con un consumo di risorse adeguato alla sua sostenibilità sul lungo periodo.

Con un indicatore di questo tipo l’economia globale considererebbe più affidabile ad esempio il Vietnam (benché non sia ancora nel quadrante D, ma è quello che ci si avvicina di più) della Norvegia. È chiaro che a questo ragionamento sottostà una scelta che ancor prima che etica è antropologica: quella
sulla questione dei beni comuni.

o IL BENE COMUNE: Gael Giraud ci ha parlato in un appassionante intervento venerdì sera di una questione filosofica di fondo: a suo dire la proprietà privata e l’interesse individuale non sono mai stati considerati un diritto naturale da nessun pensatore fino a John Locke.
Era sempre stato chiaro che al di sopra di essi c’è il bene comune, unico diritto naturale, e che questi diritti fossero invece positivi. Solo di “recente” anche la Chiesa ha effettuato dichiarazioni in tal senso, in particolare con la Rerum Novarum (1891), ma proprio in quell’enciclica appare la contraddizione insanabile tra l’idea coerente con il Vangelo che ci siano dimensioni più importanti dell’individuo, e l’idea “moderna” dell’individuo a misura di tutto.

Questo modo di pensare della modernità occidentale ha liberato energie potentissime nell’umanità, ma ha anche prodotto scelte etiche devastanti (per citarne una, la questione della proprietà intellettuale dei beni come prioritaria rispetto all’interesse collettivo nei trattati internazionali sul commercio, che per citare gli ultimi effetti ha permesso la privatizzazione dei vaccini e la massimizzazione del profitto di pochi di fronte ad una tragedia planetaria). A suo dire la battaglia culturale è innanzitutto lì.

Solo cambiando nella coscienza delle persone questa idea dell’individuo come misura ultima, che si è innestata negli ultimi secoli, possiamo ridare centralità all’interesse collettivo, che è quello planetario, di tutte le creature.

o TASSARE I RICCHI: In una discussione tra i giovani e Giraud è emersa una questione interessantissima riguardo le difficoltà con cui (non) procede la transizione ecologica/energetica, formalmente professata come prioritaria da tutti. Nella sua esperienza ci sono due grandi ostacoli: i ricchi sono il primo. I possessori di grandi patrimoni in ogni Paese vivono sopra gli standard sostenibili e vanificano i piccoli successi di cambiamento negli stili di vita che, un po’ per forza, hanno adottato alcune fette di umanità, in particolare le classi subalterne dei Paesi avanzati negli ultimi decenni. La ragione è che pensano ancora di salvarsi da soli, in un futuro in cui la tecnologia renderà vivibile per pochi un mondo radicalmente cambiato.

È un illusione stupida, ma a suo dire ancora presente e alla base di uno scarso impulso dei grandi patrimoni per il cambiamento sistemico.

L’altro però è più grave, ed è la finanza. La finanza vorrebbe cambiare, dice l’ex- banchiere di investimento che la conosce bene, ma “non può” perché è fortemente compromessa con l’economia “brown”, i settori energetici fossili. Un’analisi recente sulle 10 maggiori banche di ogni paese europeo racconterebbe che più di metà dei loro asset sono interamente “fossili”. Se la transizione si compisse nei tempi necessari sarebbe troppo “rapida” per evitare un crollo del sistema bancario che perderebbe il valore di quei capitali.

E allora? La soluzione è nelle Banche Centrali. Con un aumento di liquidità che “sostituisca” gli asset sporchi in pancia alle grandi banche, e finanzi la transizione impedendo che si perdano posti di lavoro. Ma quanto può crescere la bolla del denaro nominale sopra ad una torta dell’economia reale che rimane sempre la stessa?

Anche qui: “basterebbe” fare due cose. Espansione monetaria contemporanea tra tutte le principali aree monetarie del mondo, per evitare speculazioni competitive sul valore della moneta, e… forte tassazione dei grandi patrimoni, sempre contemporanea, per spostare soldi impegnati in finanza pura
su investimenti pubblici nella transizione. Di per sé poi l’ammontare dell’operazione riguarderebbe secondo i suoi calcoli non più del 2% del PIL Francese (stando sulla Francia) all’anno fino al 2050. Non poco, ma non impossibile.

o REDDITO UNIVERSALE DI BASE: in diversi tavoli tematici si è discusso del UBI (Universal Basic Income), tra i partecipanti all’evento c’era ad esempio anche Eduardo Matarazzo Suplicy, ex senatore brasiliano tra i primi promotori del reddito di base. È sempre tassando i patrimoni più ricchi che è possibile pensare di ridurre le disuguaglianze e dare una risposta anche al “grido dei poveri” insieme al “grido della Terra”.

Anche in questo caso è di Gael Giraud una sintesi efficace: la Banca mondiale ha identificato la soglia della povertà estrema al livello di 1,9 dollari di retribuzione giornaliera, a parità di potere di acquisto. Ma è opinione largamente condivisa tra i ricercatori economici che questa convenzione sottostimi
ampiamente i bisogni reali di un essere umano sano, capace di condurre una vita dignitosa.
Un reddito minimo di 7,4 dollari al giorno sembra molto più ragionevole. Nel 2018, oltre 4,2 miliardi di persone (il 60% della popolazione mondiale) vivevano ancora al di sotto di tale soglia.

Quale flusso di reddito annuale sarebbe necessario per consentire a questa gente di vivere al di sopra di tale soglia?”. Senza entrare nei dettagli dei calcoli sulla parità del potere d’acquisto, possiamo rispondere che costerebbe una cifra paragonabile al Pil nominale della Cina. Quindi una cifra enorme, ma solo comparando si può stabilire una fattibilità e uno studio di Oxfam che indica come l’1% della popolazione percepisca un reddito annuo complessivo pari a 56.000 miliardi di dollari (l’80% del Pil mondiale).

Questo fa dedurre a padre Giraud che la cifra richiesta è un quarto di questa: “sarebbe sufficiente per finanziare un reddito base di 7,4 dollari al giorno (e anche di più) per quella parte dell’umanità che ne è privata. Dopo il ‘prelievo’, al più alto percentile di questi super-ricchi resterebbero ancora in media 47.500 dollari di reddito MENSILE a persona: questo dovrebbe essere sufficiente per consentire loro di continuare a condurre una vita ‘dignitosa’”.

Insomma, la strada, o meglio “le” strade, sono abbastanza tracciate. Si tratta di percorrerle, e di nuovo, la sfida è costruire il consenso politico su scala globale intorno a queste istanze.

Giovanni Formigoni, (Comunità Pachamama)

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