La bellezza è negli occhi di chi contempla

Sabato della terza settimana di quaresima

Sabato della terza settimana di quaresima

Marco 6, 6b-13

In quel tempo. Il Signore Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando. Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.

 

 

E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

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Un passo di Vangelo, quello che oggi ci viene offerto per la nostra riflessione, che va letto alla luce di quanto raccontato nella prima parte del Cap. 6 dell’evangelista Marco. Proprio a casa sua, nella sinagoga di Nazareth, molti sono increduli di fronte alla sapienza di Gesù nell’interpretare le Scritture e si domandano come possa, il figlio del falegname, essere in grado di insegnare. E Gesù, amaramente, riconosce che è “un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e casa sua”. E quando questo accade, il profeta può solo andarsene e cercare altri uditori come già accaduto a tanti profeti dell’Antico Testamento.

Gesù, contestato e rifiutato, percorre i villaggi vicini per predicare la buona notizia in modo instancabile ma, ad un certo punto, decide di allargare il suo “servizio della parola” anche ai Dodici per coinvolgerli nella sua missione, in modo che siano capaci un giorno di proseguirla da soli. Li manda “a due a due” perché la missione non può essere individuale, ma deve essere sempre svolta all’insegna della condivisione, della corresponsabilità,
dell’aiuto e della vigilanza reciproca. Ma se la regola della missione è la condivisione da realizzare nel quotidiano, lo stile della missione è molto esigente e questo si applica anche a ciascuno di noi quando testimoniamo il nostro essere cristiani.

Come d’altronde sarebbe possibile trasmettere un messaggio, una parola, che non è vissuta da chi la pronuncia? Quale autorevolezza avrebbe una parola detta e predicata che non trovasse coerenza di vita in chi la proclama?

Povertà, precarietà, mitezza e sobrietà devono essere lo stile dell’inviato che deve entrare in relazione con tutti ed in particolare con i primi destinatari del Vangelo: poveri, bisognosi, scartati, ultimi, peccatori…ma il nostro essere testimoni deve accettare anche la prova più difficile, quella del fallimento. Gesù ci assicura che non c’è da temere: se rifiutati, ci si rivolge ad altri e si continua a testimoniare la Parola di Dio facendo sì che la Chiesa nasca e rinasca sempre.

Quello che conta è vivere con lo stile di Gesù dando fiducia e immettendo speranza annunciando a tutti, a partire da noi stessi, che solo l’amore salva e che la morte non è più l’ultima parola.

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